Prologo

Joanna Vasconcelos: remember the name!

Così fuori…così dentro.

Un genio questa artista portoghese capace di emozionare e raccontare in modo originale e moderno, attraverso le linee e le sorprese racchiuse in installazioni enormi, pentole che diventano gigantesche scarpe da sera, centinaia di tampax trasformati in un elegantissimo lampadario setoso, ferri da stiro che sbocciano come flessuosi fiori, e cuori che sorgono al soffitto rossi pulsanti, che non diresti proprio mai che hanno l’anima sintetica delle posate di plastica. E poi, qui dentro sbucano ovunque queste creature coloratissime che si inerpicano lungo le nervature visionarie del Guggenheim, impossibili da fotografare perché da qualsiasi angolazione tu tenti di afferrarle esondano inevitabilmente dall’obiettivo.

“I’m your mirror”, cantava Nico con Lou Reed. Cantano così anche le opere di Joanna sotto questo titolo magnificamente raccontato dalla scultura di specchi: specchi che non rivelano ma che mascherano, come si deduce dalla forma complessiva da carnevale veneziano in cui essi sono assemblati. E poi ancora, un letto ricoperto da centinaia di blister di aspirine, una poltrona tappezzata di altrettanto tondi valium, un bourka che monta lentamente fino al soffitto e poi si schianta a terra ogni 5 minuti: metafore moderne del difficile compito di essere donna, tra femminilità endogena e indotta, tra esigenze personali e richieste impersonali di essere compagne, amanti, mogli, cuoche, badanti, madri, lavoratrici in carriera e donne di casa.

E così, ecco che davanti alle sue sculture risuona quel “così fuori, così dentro”, quella corrispondenza tra il sentimento della forma e il sentire la mia attuale sostanza che mi era subito balenata al mio arrivo qui. Al primo colpo d’occhio tanto atteso sull’edificio visionario di Frank Gehry.

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